La mimosa, simbolo della lotta delle donne

Dopo la ricorrenza del Carnevale, momento di divertimento, di spensieratezza e di gioia, tanto da essere ricordato con la celebre e nota espressione latina “Semel in anno licet insanire”, arriva, puntualmente, un’altra ricorrenza, quella dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna.

Si tratta di una ricorrenza che rende orgogliose, fiere, altere gran parte delle donne per le numerose battaglie combattute nel tempo.

Battaglie che hanno loro permesso di ottenere parità, dignità, giusti riconoscimenti che da sempre le venivano negati.

Ricercare le origini della ricorrenza è piuttosto difficile e l’indeterminatezza e la confusione contribuiscono a conferirle un senso di mistero e di fascino nello stesso tempo, anche se non bisogna dimenticare che alla base c’è una tragedia realmente verificatasi nella città di New York all’inizio del ventesimo secolo, forse l’incendio della fabbrica “Triangle” nel quale morirono 146 lavoratori di cui 123 donne, in gran parte giovani immigrate di origine italiana ed ebraica.

La data, inizialmente celebrata solo in America, per ricordare l’immane tragedia, con il passare degli anni ha assunto importanza in tutto il mondo ed è divenuta non solo il simbolo delle discriminazioni e delle violenze di cui sono state vittime le donne nei secoli, ma anche e soprattutto il punto di partenza della loro battaglia e del loro faticoso riscatto.

La mimosa, dal caratteristico colore giallo, è divenuto il fiore-simbolo di questa giornata e di queste battaglie.

La donna, infatti, nell’ambito delle trasformazioni sociali e culturali avvenute, ha trovato la forza di ribellarsi a quel groviglio di leggi, tradizioni, pregiudizi che l’hanno da sempre tenuta in una condizione di umiliante inferiorità in un mondo da sempre monopolio esclusivo dell’uomo.

Assertrice convinta dei suoi diritti in una società che ancora tende a volerla repressa e sottomessa alla “superiorità” dell’uomo, la donna attuale rivendica più che mai il diritto sacrosanto di pensare e di agire in assoluta libertà ed autonomia.

Sono molte le battaglie che ha combattuto e, se non sempre ha vinto, mai si è arresa, anzi, fortificata dalle umiliazioni, dalle sofferenze, dai patimenti, dalle cocenti frustrazioni che porta da secoli scolpiti nel proprio cuore e nel proprio animo, è pronta a condurre a termine quel processo di emancipazione che non può dirsi completato per tutte le donne.

Come dimenticare le donne costrette, ancora in questo primo scorcio del terzo Millennio, a portare il burka, a non potersi vestire come tutte le donne occidentali, a non poter amare un uomo occidentale, pena essere barbaramente sgozzate come un inerme agnellino.

E che dire poi di quello che, negli ultimi anni, sta succedendo nel nostro stesso Paese?

Donne uccise, private per sempre della vita, ferite a morte, accomunate dallo stesso identico destino, in quanto vittime di inaudita violenza. Sono mogli, ex mogli, fidanzate, ex fidanzate, compagne, ex compagne accusate di non aver rispettato le “regole”, quelle regole assegnate loro dalla società, dal pregiudizio e la disubbidienza è stata fatale.

Che si tratti di giovani adolescenti che si stavano appena aprendo alla vita e cominciavano ad assaporarne le prime gioie, o di donne adulte, ognuna con una storia diversa, tutte, comunque, sicuramente innamorate della vita, tutte sicuramente innamorate del futuro, tutte sicuramente con un grande sogno nella mente e nel cuore che si è spezzato violentemente.

A questi nostri angeli, vittime della violenza di uomini folli, bisogna aggiungere le donne lapidate senza pietà nel resto del mondo perché accusate di adulterio, le “spose-bambine”, sgozzate per essersi ribellate ad un marito-nonno o le “bambine mai nate”, uccise semplicemente perché donne.

A noi piace immaginare che esista un paradiso popolato solo da queste donne-angelo, a noi piace immaginare di dar voce a chi non può più farlo, sentire il racconto del loro dolore, la loro sofferenza, i loro sogni infranti.

L’esempio di questi angeli dovrebbe essere un monito per altre donne a non lasciarsi convincere dai cosiddetti uomini-boia, soprattutto a non accettare quell’ultimo incontro, spesso verificatosi fatale e a trovare la forza di chiedere aiuto.

Allo stesso tempo gli uomini-boia non vanno abbandonati ad una cultura che li vuole ancora dominatori, padroni ossessionati dal desiderio di possesso; e se la società attuale non è ancora in grado di prevenire questo dramma, noi pensiamo che sia necessario creare canali, percorsi in grado di aiutarli a gestire e, con il tempo, a superare la sofferenza di una separazione. Dovrebbero essere aiutati, attraverso percorsi alternativi, a saper trasformare la rabbia, la frustrazione, la delusione, la gelosia malata, in dialogo, in rispetto reciproco.

                                                                                        Prof.ssa Leonarda Oliva

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